lunedì 26 febbraio 2024

Il tumulto di Prato del 20 maggio 1787

Busto in cera di Scipione de' Ricci (Clemente Susini, 1810 circa)
"Sovra ogni cosa, bisognava ricordarsi che gli uomini non vogliono essere illuminati per forza, e che se si presenta loro senza che se lo aspettino davanti agli occhi una luce troppo viva, essi li chiudono, e restano, per alcun tempo, più ciechi di prima." (Scipione de' Ricci)
Un capitolo poco conosciuto della storia di Prato ebbe luogo in una primavera degli ultimi anni del Settecento, per la precisione due anni prima dell'inizio della Rivoluzione Francese, nel maggio del 1787. L'ultimo granduca Medici, Gian Gastone, aveva dovuto cedere il passo per mancanza di eredi diretti cinquant'anni prima. Pochi anni dopo, nel 1743, era morta anche Anna Maria Luisa, ultima della casata, conosciuta dai più per il titolo di Elettrice Palatina ottenuto con il matrimonio e per il lascito testamentario - il "Patto di Famiglia" - delle opere d'arte raccolte dalla famiglia allo Stato toscano.

Con la fine dei Medici si infranse un equilibrio secolare in cui - nel bene e nel male - si era adagiata la società toscana. I nuovi governanti, in precedenza granduchi di Lorena, di formazione illuminista, dallo spirito affine a quello protestante prevalente nelle regioni del Settentrione europeo, ebbero un inizio alquanto in sordina visto che il successore di Gian Gastone, Francesco Stefano, visse poco a Firenze e molto a Vienna. Era l'erede al trono d'Austria e tre anni dopo la sua incoronazione a Granduca diventò Imperatore, lasciando onori ed oneri del governo toscano a un consiglio di reggenza.

Questo cambiamento ebbe un'inevitabile accelerazione quando a Francesco Stefano successe il giovanissimo Pietro Leopoldo di Asburgo-Lorena, nono dei sedici figli di Maria Teresa, che a soli 18 anni, nel 1765, prese possesso del Granducato. 

Pietro Leopoldo di Lorena nel 1770, ritratto da Anton Raphael Mengs
La Toscana era all'epoca solo uno Stato minore nel panorama europeo. Ma era di certo un luogo ideale dove poter sperimentare quei principi che il vento dell'Illuminismo portava con sé, per arrivare a quella società senza privilegi, razionalmente organizzata nella libera affermazione delle attività individuali e tutta protesa nello sforzo comune per il raggiungimento del bene pubblico vagheggiata dalle èlites riformiste dell'Età dei Lumi. 

Pietro Leopoldo era giovane, intelligente ed aperto, era ricettivo alle novità e soprattutto era una persona molto dotata di spirito pratico, che guardava soprattutto ai risultati delle proprie azioni di governo, mirate a mutare in profondità una società immobilizzata da mille impedimenti. Il suo arrivo nello stagnante panorama toscano ebbe l'effetto di un tifone.
Pietro Leopoldo ritratto da Pompeo Batoni nel 1769
Le riforme introdotte dal nuovo sovrano cercarono di fare della Toscana - uno Stato allora marginale in Europa - un paese all'avanguardia. Nel nome della massima libertà di commercio cancellò gli infiniti dazi commerciali, che dividevano il territorio in tanti compartimenti stagni, sostituendoli con un'unica bassa tariffa doganale, promosse la bonifica delle terre paludose della Maremma, liquidò di un sol colpo le corporazioni medievali, introdusse la riscossione diretta delle imposte da parte dello Stato, abolì il Sant'Uffizio e gli ordini ecclesiastici "inutili" - e cioè dediti alla sola preghiera - confiscandone i beni. Non ultima cosa, uniformò la giustizia, promulgando un nuovo Codice Penale che prevedeva - per la prima volta nel mondo - l'abolizione della pena di morte.
Il Granduca Leopoldo con la famiglia nel 1776 ritratto da J. Zoffany
Le direttrici della sua politica furono tre: riforma dello Stato che livellava e accentrava le vecchie autonomie, giurisdizioni e consuetudini, riforma dell'istruzione che permetteva - almeno in linea di principio - a tutti i cittadini di averne una, riforma dei rapporti con la Chiesa che doveva trasformare quella che era un'ingombrante realtà parassitaria, molto formale e poco vissuta nella quotidianità, in uno dei motori del cambiamento.

In quest'ultima fase della sua opera Pietro Leopoldo trovò un alleato inaspettato. Erede di una nobile famiglia fiorentina dalle grandi tradizioni ecclesiastiche - un'antenata era quella Caterina salita agli onori degli altari - Scipione de' Ricci era di sette anni maggiore di lui, ma ugualmente determinato a riportare all'originaria purezza e in ultima analisi a semplificare e razionalizzare una fede cristiana che trovava incrostata di superstizione. Le tesi a cui si richiamava Scipione erano almeno in parte quelle enunciate da Giansenio durante il secolo precedente. Il cristianesimo dell'età presente - sosteneva - era corrotto, ed andava riportato all'autenticità della chiesa di Sant'Agostino attraverso l'eliminazione di tutte quelle sovrastrutture che si erano aggiunte nel tempo e che distoglievano il popolo dalla vera fede.

Com'è facile immaginare, un simile atteggiamento andava perfettamente d'accordo con la politica di Pietro Leopoldo. Scipione divenne nel 1780, grazie anche all'appoggio del Granduca, vescovo di Prato e Pistoia: e una volta preso possesso del suo incarico, cominciò a mettere in pratica le sue teorie, riformando per prima la propria diocesi. Sfrattò ordini religiosi, accorpò parrocchie, sconsacrò chiese che vennero quindi ridotte ad uso civile, ordinò che i riti venissero celebrati anche in volgare e senza orpelli, contrastò il culto dei santi e delle reliquie che assimilava a vere e proprie superstizioni. La stessa ostensione pubblica della reliquia per antonomasia della Chiesa pratese, il Sacro Cingolo, non venne più fatta per quattro anni consecutivi.

Veduta di Prato nel XVIII secolo
Col passare degli anni e il procedere delle riforme, che andavano sempre di più a colpire privilegi secolari e tradizioni ed equilibri economici e sociali assai consolidati, quella disposizione di benevola aspettativa manifestata all'inizio dalla popolazione si trasformò in un atteggiamento sempre più critico e distaccato. 

Come giustamente annotava molti anni dopo Gino Capponi:
"Qui (in Toscana) erano inclinazioni tutte casalinghe, una gran voglia d'essere lasciati stare, allegro il vivere in campo angusto, ma lumeggiato d'antichi splendori, scarso lo stimolo del bisogno, il genio incredulo a nuove promesse. Le buone leggi erano state imposte con atti dispotici; quanto più andavano sin giù al fondo e alla pratica delle cose per ivi produrre effetti sicuri, tanto più avveniva che offendessero le vecchie abitudini." 
Il Sinodo di Pistoia in un'incisione del 1786
Il punto di svolta si ebbe nel Sinodo diocesano che Scipione de' Ricci convocò dal 19 al 28 settembre 1786 a Pistoia per affermare le proprie idee sul rinnovamento della Chiesa. Quest'assemblea approvò una serie di tesi di impronta giansenista che avrebbero dovuto rappresentare un primo passo per la nascita di una chiesa nazionale, riformata e indipendente da Roma.

Più delle altre, proprio questa riforma, calata dall'alto senza un vero coinvolgimento popolare, venne vista come un'imposizione: di più, venne vissuta come un attacco mortale a quell'insieme di tradizioni e credenze che erano i caratteri rappresentativi della comunità, un amalgama che diveniva costitutivo sia della vita che del sistema sociale.

Tra le molte iniziative attuate, una misura che creò molto malcontento tra quelle che il de' Ricci prese per riformare la Chiesa pratese fu quella che nel 1784 fondava una Cassa del Patrimonio ecclesiastico, un organismo finanziario destinato a realizzare il cumulo dei beni ecclesiastici della Diocesi. 

Formato coi fondi delle confraternite, conventi e abbazie soppresse doveva servire ad eliminare la sperequazione tra i sacerdoti più ricchi e quelli costretti a vivere in ristrettezze, al mantenimento dei seminari e accademie ecclesiastiche, alle ristrutturazioni e agli ampliamenti di edifici sacri, provvedendo sia ai bisogni del clero che a creare un capitale destinato al mantenimento degli orfani.
Santi di Tito, Madonna della Cintola, 1600
Alla formazione del patrimonio di questa Cassa vennero chiamate a contribuire con forti somme le tre maggiori Opere cittadine: quella della Madonna del Soccorso, quella della Madonna delle Carceri e quella del Sacro Cingolo. Questa sorta di esproprio ferì molti interessi, spezzò consuetudini radicate e coinvolse nell'ostilità contro il vescovo de' Ricci un sempre maggior numero di persone dei ceti dirigenti cittadini, già portati a far causa comune con i preti ostili al vescovo per motivi sia ideologici che personali.

Altre misure malviste furono la soppressione delle targhe delle indulgenze concesse dai pontefici, l'abolizione di molte litanie, tridui e novene, il contrasto al culto di qualsivoglia reliquia - Sacro Cingolo incluso - e la minacciata demolizione della maggior parte degli altari sempre in nome del contrasto al culto dei Santi, assimilato a una forma di superstizione. Perfino l'introduzione nella Messa di preghiere in volgare venne vista come uno sfregio alle tradizioni.

Lo stesso clero pur dovendo portare avanti il rinnovamento si divise in due fazioni, pro e contro il de' Ricci. Ciascuna faceva il possibile per screditare e demonizzare gli avversari, mettendo in giro le voci più varie sulla portata delle riforme e sulla loro messa in pratica.

Detto in generale - essendo i conservatori ben più numerosi degli innovatori - le voci a discredito divennero prevalenti e in breve incontrollabili: e anche in un'epoca in cui solo la parola parlata era accessibile alla maggior parte delle persone, non c'è da meravigliarsi se sulla base di queste voci si venne a creare una forza trascinatrice capace di provocare fermento nella popolazione.
Il Duomo di Prato e il Palazzo Vescovile in una stampa del 1830
Venerdì 18 maggio 1787, alle tredici del pomeriggio, un gruppo di incaricati del vescovo de' Ricci entrò nel Duomo di Prato da una porta laterale. Erano presenti tra gli altri l'amministratore del Patrimonio Ecclesiastico Girolamo Gini, il Vicario Lazzero Palli, l'addetto alla Guardaroba (ovvero alla gestione dei beni vescovili) Giovanni Antonio Gargalli soprannominato "Rapa"  dal popolo perché "molto aveva rapito" nello svolgimento dei suoi incarichi e il responsabile della Fabbrica del Duomo Salvatore Nutini. Il gruppo si trattenne nella chiesa per quasi un'ora e mezzo.

La popolazione, già eccitata da innumerevoli chiacchiere, interpretò questa ispezione prolungata e a porte chiuse come un preliminare alla temuta - sebbene mai apertamente minacciata - demolizione dell'altare del Preziosissimo Cingolo di Maria Vergine. Già dal venerdì notte un congruo numero di popolani stazionò nella piazza del Duomo allo scopo di capire se la demolizione iniziasse o se si vedessero o sentissero movimenti o rumori sospetti.

Malgrado le pronte smentite degli interessati, la diceria continuò a circolare nei due giorni successivi. Nel pomeriggio di domenica 20 maggio 1787, una "voce" - successivamente attribuita a Francesco Vanni, custode del camposanto della Cattedrale e già servitore della soppressa Compagnia della Misericordia - affermò che quattro marmisti venuti per demolire l'altare si nascondevano nel Palazzo Vescovile e che al posto dell'altare della Sacra Cintola sarebbe stato realizzato un Battistero. Questa voce fu la scintilla finale che diede fuoco alle polveri e scatenò il tumulto.
Piazza del Duomo nel XVII secolo, tempera su carta montata su tela
Prato, all'epoca città di circa 20.000 abitanti, era affollata in quel fine settimana. Le voci sulla possibile demolizione dell'altare del Preziosissimo Cingolo, unite al fatto che era domenica e che il giorno successivo si sarebbe tenuto il mercato (anche allora uno dei maggiori del circondario), avevano richiamato e incuriosito molti cittadini. Si stima che per le strade del centro storico ci fossero diverse migliaia di persone, probabilmente dalle 5 alle 8.000. Un cronista contemporaneo, Francesco Buonamici, fornisce la cifra di 25.000, sicuramente esagerata. Molte di queste persone stazionavano nella piazza del Duomo e nei suoi dintorni, attente a cogliere ogni movimento che potesse rivelare l'arrivo dei temuti marmisti.

Nel tardo pomeriggio della domenica, un gruppo dei più facinorosi decise di ispezionare il Duomo e il Palazzo Vescovile per sincerarsi se e dove fossero nascosti questi operai. Come si può facilmente immaginare, l'ispezione si trasformò in irruzione, e l'irruzione in perquisizione. I famigli del vescovo furono costretti a fuggire, mentre una marea di gente entrava in Duomo e nell'attiguo Palazzo Vescovile per cercare i "marmisti" in ogni dove, prendendo nel frattempo tutto quello che poteva essere di qualche utilità.
La Diocesi di Pistoia e Prato nel XVIII secolo
La fuga del Vicario granducale, intervenuto per cercare di placare la folla, peggiorò la situazione: la sua ritirata senza risultato fece pensare che fosse andato a chiedere rinforzi a Firenze, e a questo punto un drappello di insorti decise di prendere possesso del campanile, per suonare le campane a stormo e convocare così la plebe dei distretti rurali, ostilissimi anch'essi al vescovo. 

La porta del campanile - serrata - venne sfondata con pali e travi, e l'ultimo colpo lo diede un popolano - tale Giuseppe Bertini di 45 anni - conosciuto da tutti come Cestina o Caporal Tigna a causa della sua precoce calvizie, che cozzando a testate come se fosse un ariete aprì la porta già sconquassata. L'impresa del Cestina, opportunamente ingigantita dal passaparola, lo fece diventare il soggetto di un ritratto che qualche tempo dopo realizzò un pittore bolognese e che in breve fece il giro di tutta la Toscana, diventando così celebre che ne volle una copia persino il Papa Pio VI.

L'altare del Sacro Cingolo in una incisione settecentesca
Con le campane che suonavano a stormo e il campanile impavesato dalle fiaccole fin sulla cima, Prato si risvegliò nella notte al grido di "via il vescovo de' Ricci" e con l'idea di rimettere le cose come stavano "prima" in nome della "vera fede".

Il Palazzo Vescovile fu saccheggiato da cima a fondo. Si scatenò un autentico carnevale di processioni fuori tempo, con statue di Madonne e di Gesù portate in giro da torme di popolani scalzi, ubriachi, stracciati e malmessi. Questi ultimi andavano di chiesa in chiesa costringendo i parroci ad addobbarle di ceri e torce come se fosse Natale o Pasqua, togliendo e distruggendo le effigi e le insegne dell'odiato vescovo e ripristinando altari e targhe cancellate.

Le campane del Duomo suonate a distesa per ore e il campanile addobbato di torce che lo rendevano visibile da chilometri di distanza richiamarono ulteriori folle dal contado che si aggiunsero a quelle già presenti in città. Giunsero popolani fin da Campi e Agliana, muniti di scuri, pennati, pali forcati, travicelli e altri arnesi. Dicono le cronache che in quella notte vennero bruciate circa 1500 libbre di cera (più o meno mezza tonnellata di oggi), tra addobbi e processioni. E per meglio scaldare l'animo dei facinorosi, anche le cantine del vescovado furono svuotate da tutto il vino che vi si trovava.
Sebastiano Ricci, Allegoria della Toscana, 1707
Il momento culminante della rivolta fu la demolizione della Cattedra Vescovile che era nel Duomo: venne infatti bruciata in piazza insieme allo stemma del Vescovo e a tutti i libri che portavano le sue insegne. Con l'occasione venne lanciata anche la proposta di bruciare la stamperia che all'epoca si trovava sotto al Duomo, ma per fortuna questa idea insensata non ebbe seguito.

La festa durò fino al mattino del lunedì 21 quando un delegato - mandato dal Governo fiorentino con al seguito quattro guardie del Granduca - cedette alle richieste dei popolani. Questi ottennero un'ostensione straordinaria del Sacro Cingolo e la dichiarazione - scritta - che mai e poi mai sarebbe stato abbattuto l'altare. 

Seguì una "processione del Gesù morto" fino alla chiesa di San Bartolomeo che calmò gli animi. A questo contribuirono anche il fatto che ormai era la tarda mattinata del lunedì e il sonno, la stanchezza e il vino bevuto si facevano sentire. La folla a quel punto si sciolse e tutti rientrarono a casa proprio nel momento in cui un contingente di truppe granducali, chiamate a reprimere il tumulto, fece ingresso in città.
Ufficiale delle milizie territoriali toscane, 1748
Era il tardo pomeriggio di lunedì 21. Nei giorni successivi ci fu l'inevitabile repressione: soldati giunti da Firenze e da Livorno occuparono la città e diedero inizio a una perquisizione casa per casa che condusse all'arresto di circa 130 persone. I prigionieri vennero condotti al carcere fiorentino delle Stinche, furono interrogati e in maggioranza condannati ad essere frustati sulla pubblica piazza, cosa che avvenne il lunedì 4 giugno in piazza del Duomo dopo che il corteo dei condannati era stato portato in giro per tutto il centro della città. Dei 67 portati in corteo da 140 tra guardie civiche e soldati solo 29 vennero però frustati con 12 frustate ciascuno, gli altri ebbero una condanna al carcere di poca entità. Non ci fu perciò da parte del governo la volontà di infierire sugli insorti, quanto piuttosto quella di far vedere di essere in grado di reagire appropriatamente a un simile evento, pur senza volergli dare troppa importanza.
Carta di Prato e del contado nel 1719
Gli interrogatori degli arrestati fecero subito capire agli inquisitori che la protesta, seppure non apertamente organizzata, era comunque stata fomentata da elementi facenti parte della stessa Chiesa. In particolare, si arrivò alla convinzione che le dicerie che avevano scatenato il tumulto provenivano dai frati di due conventi situati poco fuori delle mura: i Cappuccini dell'omonimo convento e i Padri Francescani del Ritiro che avevano la loro sede in quella villa del Palco che era stata di Francesco di Marco Datini.

Questi ultimi in particolare scendevano ogni giorno a dir messa in un Oratorio - quello dell'Ospizio di San Giuseppe, situato di fianco al Duomo nel luogo dove oggi sta oggi il Palazzo Vestri - allora molto frequentato dal popolo pratese perché vi si recitavano molte funzioni in suffragio dei defunti. Sembra che in più occasioni i Padri avessero istigato i fedeli alla disobbedienza nei confronti del vescovo de' Ricci, che vedevano come un pericoloso scismatico.
La villa di San Leonardo al Palco, oggi
Di conseguenza, nel pomeriggio di martedì 22 maggio al Palco e ai Cappuccini arrivò un drappello di armigeri con un motuproprio del Granduca che ordinava l'immediata soppressione dei due conventi e la deportazione dei frati, ai quali vennero lasciate poche ore per fare i bagagli e partire. Anche l'Oratorio dell'Ospizio di San Giuseppe venne chiuso, sconsacrato e venduto a privati che lo ristrutturarono a tal punto che oggi non resta più traccia dell'antico edificio.

Come giustamente commentava anni dopo Giovanni Antonio Venturi:

"In Toscana i frati, gli ex-gesuiti, tutti i loro aderenti, tutti i fautori della corte romana (e non erano pochi) si affaccendavano a mettere in discredito presso il popolo le innovazioni e gl' innovatori, ad accendere il fanatismo del volgo : e bisogna pur dirlo, in generale in Toscana non solo le innovazioni ecclesiastiche, ma tutte quante le riforme di Leopoldo, poi tanto ammirate, allora o non furono comprese, o furon guardate con indifferenza, o suscitarono sospetto o avversione. Contro di esse era facile sollevare il popolo, non cattivo per indole in vero né privo di naturale ingegno, ma da troppo tempo trascurato ed inerte, superstizioso, affezionato a tutto ciò che era vecchia consuetudine, diffidente e nemico d'ogni novità e d'ogni movimento.”

Il tumulto pratese, che si rivolse principalmente contro il vescovo de' Ricci non potendo chiamare in causa il Granduca Leopoldo, fu peraltro un termometro fedele della protesta che montava in quegli anni nei ceti colpiti dalle riforme: la Chiesa in primo luogo che vedeva scardinati non solo i propri privilegi ma perfino la sua stessa organizzazione, i nobili esautorati dal potere, gli artigiani veri o fittizi colpiti dalla soppressione delle corporazioni e dalle altre riforme liberiste, i commercianti esposti alla libertà di commercio, i popolani che non riuscivano più a mettere insieme il pranzo con la cena. 
Il Granducato di Toscana nel 1780
L'anelito dei popolani a "rimettere le cose come stavano" nasceva infatti da evidenti condizioni di alienazione sociale, di crisi economica e di precarietà esistenziale: una vita di miseria e di mancanza di mezzi di sussistenza che faceva loro rimpiangere perfino la stagnante Toscana degli ultimi Medici. Senza queste condizioni di base sicuramente la sommossa non avrebbe avuto un'intensità e un'estensione così vasta sia in città che nel contado. La reazione alle riforme religiose del de' Ricci era semplicemente un sintomo di un rifiuto assai più vasto verso tutto il programma di riforme di Leopoldo, portato avanti non solo dal popolo ma anche dalle classi superiori che del popolo si facevano schermo: clero capitolare, nobili e borghesi cittadini.

Per un insieme di ragioni - climatiche, politiche, organizzative - il periodo delle riforme leopoldine si rivelò una via crucis per le popolazioni toscane sempre più impoverite, imprigionate tra la necessità del cambiamento e tutta una serie di calamità che si susseguirono per tutta la seconda metà del Settecento, un secolo contraddistinto dall'imperversare della cosiddetta Piccola Era Glaciale. In primo luogo le carestie, che colpirono duro nel 1764-66, e poi ancora nel 1772-74 e nel 1782, aggravate da epidemie favorite dalla generale sottoalimentazione e esacerbate da inondazioni e terremoti che continuarono - episodicamente - a funestare la nostra regione.
L'alimurgia è il nutrirsi di prodotti selvatici, rimedio obbligato in tempi di carestie
Un'altra ragione stava proprio nelle riforme liberistiche di Leopoldo, che presupponevano la massima libertà di commercio livellando i prezzi delle merci toscane - massimamente quelli delle "grascie" ovvero dei viveri - con quelli degli altri Paesi d'Europa, favorendo un incremento dei prezzi delle derrate nell'idea che i maggiori utili realizzati dai proprietari terrieri avrebbero stimolato quell'accumulo di capitali necessario allo sviluppo dell'agricoltura.

Anche la caduta delle barriere protezionistiche tra città e campagna insieme alla crescita demografica e alla diffusione di istituti come quello della mezzadria - che spesso lasciava ai contadini introiti insufficienti per la loro sussistenza, portandoli a indebitarsi con il loro stesso padrone - mantenne statici, quando non vide addirittura decrescere, i salari, portando vaste masse di popolani a vivere di espedienti, furti ed elemosine.

Questa compressione delle condizioni di vita fu sicuramente il corollario della scelta economica operata dal gruppo riformatore, così come la manifestazione della volontà di ridurre alla pura sussistenza le esigenze delle masse popolari, che assieme al pieno sfruttamento del loro lavoro costituiva ai loro occhi l'unica via per accrescere le rendite dei proprietari terrieri, che in questo modo avrebbero avuto i mezzi sia per investire che per consumare, dando lavoro ad artigiani e a manifatture, in ultima analisi invertendo il senso dello sviluppo economico del Granducato.

In sintesi, le riforme di Leopoldo di Lorena, pur avendo molti aspetti positivi, furono attuate senza tenere conto delle reali condizioni della popolazione, andando ad alimentare un malcontento che sfociò nella rivolta e prese di mira la parte delle riforme - quella religiosa - che sembrava meno preminente per il potere centrale.

E proprio del disagio del popolo si nutrirono i ceti conservatori che cercarono di impedire il cambiamento fomentando la reazione: ma non sarebbero state le processioni e le ostensioni a fermare la marea montante della rivoluzione borghese. I tempi stavano cambiando, il mutamento era ormai irreversibile: mancavano solo due anni al 14 luglio 1789.

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