sabato 20 aprile 2024

Sapore, sapere

Coltivazione del mais e preparazione di tortillas, Diego Rivera 1950

"Il vero viaggio, in quanto introiezione d’un «fuori» diverso dal nostro abituale, implica un cambiamento totale dell’alimentazione, un inghiottire il paese visitato, nella sua fauna e flora e nella sua cultura (non solo le diverse pratiche della cucina e del condimento ma l’uso dei diversi strumenti con cui si schiaccia la farina o si rimesta il paiolo), facendolo passare per le labbra e l’esofago. Questo è il solo modo di viaggiare che abbia un senso oggigiorno, quando tutto ciò che è visibile lo puoi vedere anche alla televisione senza muoverti dalla tua poltrona."

Nel giugno del 1982 avevo vent'anni, e mi ero abbonato dai primi di quell'anno alla rivista FMR di Franco Maria Ricci: rivista d'arte bellissima, dalla copertina nera lucida e dai caratteri bodoniani che al me di allora apparivano un po' retrò, con immagini curate e testi rigorosi, che proponevano argomenti insoliti e stimolavano molto la mia insaziabile curiosità. 

Uno degli articoli di quel mese riguardava una mostra che si teneva alla Biblioteca Laurenziana di Firenze incentrata sul Codice Fiorentino di fra Bernardino de Sahagùn, concepito dopo la Conquista spagnola e redatto nel convento di Santa Cruz di Tlatelolco con lo scopo di raccogliere - come in un'enciclopedia ante litteram - tutte le conoscenze, i riti, la vita quotidiana e la lingua delle popolazioni conquistate, in una sorta di commemorazione di quel Messico azteco che i conquistadores avrebbero voluto cancellare dalla memoria del mondo. Tuttavia il libro fu prontamente sequestrato al frate dalla Corte spagnola, che ne proibì la ristampa e la lettura, perché sebbene non criticasse mai apertamente l'amministrazione spagnola evidenziava il disordine sociale e lo sfruttamento che erano seguiti alla Conquista.

Il Codice, certamente salvato per il suo evidente valore artistico, sfuggì alla distruzione definitiva e giunse a Firenze nel 1579, dono di Filippo II di Spagna al Granduca Francesco I de' Medici, in occasione delle sue seconde nozze con Bianca Cappello; restò a lungo dimenticato sugli scaffali della Laurenziana fino alla sua riscoperta a metà Ottocento, epoca in cui la sua esistenza si rivelò al grande pubblico attraverso varie ristampe.

Nell'articolo di FMR, Pietro Corsi abbinava bellissime illustrazioni tratte dal Codice con un racconto inedito di Italo Calvino,  Sapore, sapere, che in seguito sarebbe stato rinominato Sotto il sole giaguaro. Il testo racconta la scoperta di sé e del rapporto con l'altro attraverso l'esperienza di una cucina completamente diversa da quella dei due protagonisti: il cibo, in questo racconto, assume infatti un valore fortemente simbolico. I sapori piccanti e intensi rappresentano la passione e la sensualità, mentre i piatti esotici e sconosciuti simboleggiano la scoperta di nuovi orizzonti e la voglia di avventura.

Prima di leggere questo racconto, non avevo mai considerato il cibo come un'esperienza culturale. Lo vedevo semplicemente come qualcosa da consumare. Non avrei mai immaginato che, qualche anno dopo, avrei avuto la possibilità di assaporare la cucina messicana nel suo paese d'origine. Un'esperienza che ha rivoluzionato il mio modo di percepire la cucina "straniera". Le riflessioni suscitate da questo racconto di Italo Calvino sono state il punto di partenza di un viaggio di approfondimento che dura tuttora. Ancora oggi, a più di quarant'anni di distanza, trovo che sia un'opera poetica e sensuale, capace di trasmettere emozioni attraverso le parole. Proprio per questo spero che lo leggerete con lo stesso gusto che ho provato io.

Codice Fiorentino, Libro I foglio 11r

 Sapore, Sapere

Gustare,  in genere, esercitare il senso del gusto, riceverne l’impressione, anco senza deliberato volere o senza riflessione poi. L’assaggio si fa più determinante a fin di gustare e di sapere quel che si gusta; o almeno denota che dell’impressione provata abbiamo un sentimento riflesso, un’idea, un principio d’esperienza. Quindi è che sapio,  ai Latini, valeva in traslato sentir rettamente; e quindi il senso dell’italiano sapere,  che da sé vale dottrina retta, e il prevalere della sapienza sopra la scienza." (Niccolò Tommaseo, Dizionario dei sinonimi)

Oaxaca si pronuncia Uahàca. L’albergo a cui eravamo scesi era stato, in origine, il convento di Santa Catalina. La prima cosa che avevamo notato era un quadro, in una saletta che portava al bar. Il bar si chiamava «Las Novicias». Il quadro era una grande tela oscura che rappresentava una giovane monaca e un vecchio prete, in piedi, affiancati, le mani leggermente staccate dal corpo, quasi sfiorandosi. Figure piuttosto rigide, per essere un quadro del Settecento: una pittura dalla grazia un po’ rozza propria dell’arte coloniale, ma che trasmetteva una sensazione conturbante, come uno spasimo di sofferenza contenuta. La parte inferiore del quadro era occupata da una lunga didascalia, in fitte righe d’una angolosa scrittura corsiva, bianco su nero. Vi si celebravano devotamente vita e morte dei due personaggi, che erano stati lui il cappellano e lei la badessa del convento (lei, di nobile famiglia, v’era entrata novizia a diciott’anni). La ragione per cui venivano ritratti insieme era lo straordinario amore (la parola nella pia prosa spagnola si presentava carica del suo anelito ultraterreno) che aveva legato per trent’anni la badessa e il suo confessore, un così grande amore (la parola nella sua accezione spirituale sublimava ma non cancellava l’emozione corporea) che quando il prete era venuto a morte, la badessa, di vent’anni più giovane, nello spazio di un giorno, s’era ammalata ed era spirata letteralmente d’amore (la parola bruciava d’una verità in cui tutti i significati convergono) per raggiungerlo in cielo. 

Olivia, che sapeva lo spagnolo meglio di me, m’aiutò a decifrare la storia suggerendomi la traduzione di qualche espressione oscura; e furono queste le sole parole che ci venne da scambiare durante e dopo la lettura, come ci trovassimo in presenza d’un dramma, o d’una felicità, che rendeva ogni commento fuori luogo; qualcosa che ci intimidiva, anzi, intimoriva, o meglio, ci comunicava una specie di malessere. Così cerco di descrivere quel che provavo io: il senso d’una mancanza, d’un vuoto divorante; cosa stesse pensando Olivia, dato che taceva, non posso indovinarlo. Poi Olivia parlò. Disse: «Vorrei mangiare chiles en nogada».  E a passi da sonnambuli, come non ben sicuri di toccar terra, ci dirigemmo verso il ristorante. Come accade nei momenti migliori della vita d’una coppia, avevo istantaneamente ricostruito il percorso dei pensieri d’Olivia, senza che ci fosse bisogno di dire di più: e questo perché la stessa catena d’associazioni s’era srotolata anche nella mia mente, se pure in modo più torpido e nebbioso, tale che senza di lei non avrei potuto acquistarne coscienza. 

Il nostro viaggio attraverso il Messico durava già da più d’una settimana. Pochi giorni prima, a Tepotzotlàn, in un ristorante che allineava i suoi tavoli tra gli alberi d’arancio d’un altro chiostro di convento, avevamo gustato vivande preparate (così almeno ci era stato detto) seguendo le antiche ricette delle monache. Avevamo mangiato un tamàl de elote,  cioè una sottile semola di mais dolce con carne di maiale tritata e piccantissimo peperoncino, il tutto cotto al vapore con una foglia anch’essa di mais; poi chiles en nogada,  che erano peperoncini rossobruni, un po’ rugosi, nuotanti in una salsa di noci la cui asprezza pungente e il fondo amaro si perdevano in un’arrendevolezza cremosa e dolcigna. Da quel momento l’idea delle monache evocava in noi i sapori di una cucina elaborata e audace, come tesa a far vibrare le note estreme dei sapori e ad accostarle in modulazioni, accordi e soprattutto dissonanze che s’imponessero come un’esperienza senza confronti, un punto di non ritorno, una possessione assoluta esercitata sulla ricettività di tutti i sensi. 

L’amico messicano che ci aveva accompagnato in quella gita, di nome Salustiano Velazco, nel rispondere a Olivia che s’informava su queste ricette della gastronomia monacale, abbassava la voce come confidandoci segreti indelicati. Era il suo modo di parlare, questo; o meglio, uno dei due suoi modi: le informazioni di cui Salustiano era prodigo (sulla storia e i costumi e la natura del suo paese era d’una erudizione inesauribile) venivano o enunciate con enfasi come proclami di guerra o insinuate con malizia come fossero cariche di chissà quali sottintesi. Olivia aveva osservato che piatti come questi presupponevano ore e ore di lavoro, e prim’ancora una lunga serie d’esperimenti e perfezionamenti. «Ma passavano le giornate in cucina, queste monache?» aveva chiesto, immaginandosi vite intere dedicate alla ricerca di nuove mescolanze d’ingredienti e variazioni nei dosaggi, all’attenta pazienza combinatoria, alla trasmissione d’un sapere minuzioso e puntuale. «Tenìan sus criadas,  avevano con sé le loro domestiche», aveva risposto Salustiano e ci aveva spiegato come le figlie di famiglie nobili entrassero in convento portando con sé le proprie donne di servizio; cosicché per soddisfare i veniali capricci della gola, i soli a esser loro concessi, le monache potevano contare su uno stuolo alacre e infaticabile d’esecutrici. 

E quanto a loro non avevano che da ideare e predisporre e confrontare e correggere ricette che esprimessero le loro fantasie costrette tra quelle mura: fantasie anche di donne raffinate, e accese, e introverse, e complicate, donne con bisogni d’assoluto, con letture che parlavano d’estasi e trasfigurazioni e martìri e supplizi, donne con contrastanti richiami nel sangue, genealogie in cui la discendenza dei Conquistadores si mescolava con quella delle principesse indie, o delle schiave, donne con ricordi infantili di frutti e aromi d’una vegetazione succulenta e densa di fermenti, benché cresciuta da quegli assolati altopiani. Né si poteva dimenticare l’architettura sacra che faceva da sfondo alle vite di quelle religiose, mossa dalla stessa spinta verso l’estremo che portava all’esasperazione dei sapori amplificata dalla vampa dei chiles più piccanti. Così come il barocco coloniale non poneva limite alla profusione degli ornamenti e allo sfarzo, per cui la presenza di Dio era identificata in un delirio minuziosamente calcolato di sensazioni eccessive e traboccanti, così il bruciore delle quarantadue varietà indigene di peperoncini sapientemente scelti per ogni vivanda apriva le prospettive d’un’estasi fiammeggiante. 

Avevamo, a Tepotzotlàn, visitato la chiesa che i Gesuiti avevano costruito per il loro seminario nel Settecento (e appena inaugurata avevano dovuto abbandonarla, cacciati per sempre dal Messico): una chiesa-teatro tutta in oro e colori vivi, in un barocco danzante e acrobatico, folta d’angeli volteggiami, ghirlande, trofei di fiori, conchiglie. Certo i Gesuiti s’erano proposti di gareggiare con lo splendore degli Aztechi, le rovine dei cui templi e palazzi - la reggia di Quetzacoatl! - erano sempre presenti a ricordare un dominio esercitato con gli effetti suggestivi d’un’arte trasfiguratrice e grandiosa. C’era una sfida nell’aria, in quest’aria secca e fine dei duemila metri: l’antica sfida tra le civiltà d’America e di Spagna nell’arte d’incantare i sensi con seduzioni allucinanti, e dall’architettura questa sfida s’estendeva alla cucina, dove le due civiltà s’erano fuse, o forse dove quella dei vinti aveva trionfato, forte dei condimenti nati dal suo suolo. Attraverso bianche mani di novizie e mani brune di converse, la cucina della nuova civiltà ispano-india s’era fatta anch’essa campo di battaglia tra la ferinità aggressiva degli antichi dèi dell’altopiano e la sovrabbondanza sinuosa della religione barocca… 

Nel menu della cena non trovammo chiles en nogada (da una località a un’altra il lessico gastronomico variava proponendo sempre nuovi termini da registrare e nuove sensazioni da distinguere), bensì guacamole (cioè una purée di avocado e cipolla da tirar su con le tortillas croccanti che si spezzano in tante schegge e s’intingono come cucchiai nella crema densa: la pingue morbidezza dell’aguacate - il frutto nazionale messicano diffuso per il mondo sotto il nome storpiato di avocado - accompagnata e sottolineata dall’asciuttezza angolosa della tortilla,  che può avere a sua volta tanti sapori facendo finta di non averne nessuno), poi guajolote con mole poblano (cioè tacchino con salsa di Puebla, tra i tanti moles uno dei più nobili - era servito alla tavola di Moctezuma -, più laboriosi - a prepararlo non ci si mette mai meno di tre giorni - e più complicati - perché richiede quattro varietà diverse di chiles,  aglio, cipolla, cannella, chiodi di garofano, pepe, semi di cumino, di coriandolo e di sesamo, mandorle, uva passa, arachidi e un po’ di cioccolato) e infine quesadillas (che sarebbero un altro tipo di tortilla,  in cui il formaggio è incorporato alla pasta e guarnito di carne tritata e di fagioli fritti). 

Le labbra d’Olivia nel bel mezzo della masticazione indugiavano fin quasi a fermarsi, ma senza interrompere del tutto la continuità del movimento, che rallentava come non volendo lasciar allontanare un’eco interiore, mentre il suo sguardo si fissava in un’attenzione senza oggetto apparente, quasi come in allarme. Era una speciale concentrazione del viso che avevo osservato in lei durante i pasti, da quando avevamo cominciato il nostro viaggio in Messico: una tensione che seguivo nel suo propagarsi dalle labbra alle narici, ora dilatate ora contratte. (Il naso ha una plasticità molto ridotta - soprattutto un naso armonioso e gentile come quello d’Olivia - e ogni impercettibile movimento inteso a espandere la capienza delle narici nel senso longitudinale le rende in effetti più sottili, mentre il corrispettivo movimento riflesso che ne accentua l’ampiezza risulta poi invece come un ritrarsi di tutto il naso verso la superficie del viso). Da quanto ho detto si potrebbe credere che Olivia mangiando si chiudesse in se stessa immedesimandosi nel percorso interiore delle sue sensazioni; in realtà invece il desiderio che tutta la sua persona esprimeva era quello di comunicarmi ciò che sentiva: di comunicare con me attraverso i sapori, o di comunicare coi sapori attraverso un doppio corredo di papille, il suo e il mio. 

«Senti? Hai sentito?» mi diceva con una specie d’ansia, come se in quel preciso momento i nostri incisivi avessero triturato un boccone di composizione identica e la stessa stilla d’aroma fosse stata captata dai recettori della mia lingua e della sua. «È lo xilantro Non senti lo xilantro?» aggiungeva, menzionando un’erba che dal nome locale non eravamo ancora riusciti a identificare con sicurezza (forse l’aneto?) e di cui bastava un filo sottile nel boccone che stavamo masticando per trasmettere alle narici una commozione dolcemente pungente, come un’impalpabile ebbrezza. Questo bisogno che Olivia aveva di coinvolgermi nelle sue emozioni m’era molto gradito, perché mi dimostrava quanto le fossi indispensabile e come per lei i piaceri dell’esistenza fossero apprezzabili solo se condivisi tra noi. È solo nell’unità della coppia - pensavo - che le nostre soggettività individuali trovano amplificazione e completezza. Di confermarmi in questa convinzione avevo tanto più bisogno in quanto dall’inizio del nostro viaggio messicano l’intesa fisica tra me e Olivia stava attraversando una fase di rarefazione se non d’eclisse: fenomeno certamente momentaneo e non preoccupante in sé, anzi tale da rientrare nei normali alti e bassi cui va soggetta, nei tempi lunghi, la vita d’ogni coppia. E non potevo fare a meno di notare che certe manifestazioni della carica vitale d’Olivia, certi suoi scatti o indugi o struggimenti o palpiti, continuassero a dispiegarsi sotto i miei occhi senz’aver perso nulla della loro intensità, con una sola variante di rilievo: l’aver per teatro non più il letto dei nostri abbracci ma una tavola apparecchiata. 

M’aspettavo, nei primi giorni, che la crescente accensione del palato non tardasse a comunicarsi a tutti i nostri sensi. Sbagliavo: afrodisiaca questa cucina lo era certamente, ma in sé e per sé (questo credetti di capire e ciò che dico vale per noi in quel momento; non so per altri, o per noi stessi se ci fossimo trovati in un altro stato d’animo), ossia stimolava desideri che cercavano soddisfazione solo nella stessa sfera di sensazioni che li aveva fatti nascere, dunque mangiando sempre nuovi piatti che rilanciassero e ampliassero quegli stessi desideri. Eravamo dunque nella situazione migliore per immaginare come poteva essersi svolto l’amore tra la badessa e il cappellano: un amore che poteva pur essere stato, agli occhi del mondo e di loro stessi, perfettamente casto, e nello stesso tempo d’una carnalità senza limiti in quell’esperienza dei sapori raggiunta per mezzo d’una complicità segreta e sottile. Complicità: la parola, appena la pensai, riferendola non solo alla monaca e al prete ma a Olivia e a me, mi rinfrancò. Perché se era complicità quella che Olivia cercava per la passione quasi ossessiva per il cibo che l’aveva presa, ebbene, allora questa complicità implicava che non si perdesse, come sempre più temevo, una parità tra noi. Infatti mi sembrava che negli ultimi giorni Olivia, nella sua esplorazione gustativa, volesse tenermi in una posizione subalterna, come d’una presenza necessaria sì ma sottomessa, obbligandomi a far da testimone al suo rapporto col cibo, o da confidente, o da compiacente mezzano. 

Scacciai questo pensiero importuno, che chissà come mi s’era affacciato alla mente: in realtà la nostra complicità non poteva essere più piena, proprio perché era diverso il modo in cui vivevamo la stessa passione in armonia coi nostri temperamenti: Olivia più sensibile alle sfumature percettive e dotata d’una memoria più analitica dove ogni ricordo restava distinto e inconfondibile; io più portato a definire verbalmente e concettualmente le esperienze, a tracciare la linea ideale del viaggio compiuto dentro di noi contemporaneamente al viaggio geografico. Questa era appunto una conclusione a cui ero giunto e che Olivia aveva prontamente fatto sua (o forse l’idea era stata Olivia a suggerirmela e io non avevo fatto che riproporgliela con parole mie): il vero viaggio, in quanto introiezione d’un «fuori» diverso dal nostro abituale, implica un cambiamento totale dell’alimentazione, un inghiottire il paese visitato, nella sua fauna e flora e nella sua cultura (non solo le diverse pratiche della cucina e del condimento ma l’uso dei diversi strumenti con cui si schiaccia la farina o si rimesta il paiolo), facendolo passare per le labbra e l’esofago. Questo è il solo modo di viaggiare che abbia un senso oggigiorno, quando tutto ciò che è visibile lo puoi vedere anche alla televisione senza muoverti dalla tua poltrona. (E non si obietti che lo stesso risultato si ha a frequentare i ristoranti esotici delle nostre metropoli: essi falsano talmente la realtà della cucina cui pretendono di richiamarsi che, dal punto di vista dell’esperienza conoscitiva che se ne può trarre, equivalgono non a un documentario ma a una ricostruzione ambientale filmata in uno studio cinematografico). 

Ciò non toglie che nel nostro viaggio Olivia e io vedessimo tutto quello che va visto (certo non poco, come quantità e qualità). Per l’indomani era fissata la visita agli scavi di Monte Albàn; la guida venne puntualmente a prenderci all’albergo con il pulmino. Nell’assolata arida campagna crescono le agavi per il mezcal e la tequila,  i nopales (da noi detti fichi d’India), i cereus tutti spine, gli jacaranda dai fiori azzurri. La strada sale tra le montagne. Monte Albàn, tra le alture che circondano una vallata, è un complesso di rovine di templi, bassorilievi, grandiose scalinate, piattaforme per i sacrifici umani. L’orrore, il sacro e il mistero vengono inglobati dal turismo, che ci detta comportamenti preordinati, modesti succedanei di quei riti. Contemplando questi gradini cerchiamo d’immaginarci il sangue caldo zampillante dai petti squarciati dalle lame di pietra dei sacerdoti… 

Tre civiltà si sono succedute a Monte Albàn spostando sempre le stesse pietre: gli Zapotechi distruggendo e rifacendo le opere olmeche e i Mixtechi le zapoteche. I calendari delle antiche civiltà messicane, scolpiti nei bassorilievi, rispondono a una concezione del tempo ciclica e tragica: ogni cinquantadue anni l’universo finiva, morivano gli dèi, i templi venivano distrutti, ogni cosa celeste o terrena cambiava nome. Forse i popoli che la storia distingue come occupanti successivi di questi territori non erano che un unico popolo, la cui continuità non si è mai spezzata, pur attraverso una storia di massacri quale i bassorilievi rappresentano. Ecco i villaggi conquistati, col nome scritto in geroglifici, e il dio del villaggio a testa in giù; ecco i prigionieri di guerra in catene, le teste staccate delle vittime… 

La guida a cui ci ha affidato l’agenzia turistica, un omaccione a nome Alonso, dai lineamenti appiattiti come le figure olmeche (o mixteche? o zapoteche?), ci illustra, con grande esuberanza mimica, i famosi bassorilievi detti «Los Danzantes». Delle figure scolpite solo alcune rappresenterebbero effettivamente danzatori con le gambe in movimento (Alonso esegue alcuni passi di danza); altri potrebbero essere astronomi che alzano una mano a visiera per scrutare le stelle (Alonso si mette in posa di astronomo); ma per la più parte rappresentano donne in atto di partorire (Alonso esegue). Comprendiamo che questo tempio era destinato a scongiurare i parti difficili; i bassorilievi erano forse immagini votive. Anche la danza, del resto, serviva a facilitare i parti per mimesi magica, specialmente quando il bambino si presentava di piedi. (Alonso mima la mimesi magica). Un bassorilievo rappresenta un taglio cesareo con tanto d’utero e di trombe di Falloppio. (Alonso, più brutale che mai, mima l’intera anatomia femminile, a provare che un identico strazio chirurgico accomunava le nascite e le morti). Tutto nella gesticolazione della nostra guida prendeva un senso truculento, come se i templi dei sacrifici proiettassero la loro ombra su ogni atto e ogni pensiero. Ogni figura dei bassorilievi appariva legata a quei riti sanguinosi: fissata la data più propizia contemplando le stelle, il sacrificio era accompagnato dal tripudio delle danze; e perfino le nascite sembravano non aver altro fine che di rifornire di nuovi soldati le guerre per la cattura delle vittime. Anche dove sono rappresentate figure che corrono o lottano o giocano a palla non si tratta di pacifiche gare d’atleti ma di prigionieri di guerra obbligati a gareggiare per decidere a chi di loro tocca per primo di salire sull’altare. «Chi perdeva nelle gare era destinato al sacrificio?» domando. «No, chi vinceva!» e il viso d’Alonso s’illumina. «Avere il petto squarciato dal coltello d’ossidiana era un onore!» e in un crescendo di patriottismo ancestrale, come ha vantato l’eccellenza del sapere scientifico degli antichi popoli, così ora il buon discendente degli Olmechi si sentiva in dovere di esaltare l’offerta al sole d’un cuore umano palpitante, perché l’aurora ritorni a illuminare il mondo ogni mattino. 

Fu allora che Olivia domandò: «Ma del corpo delle vittime, dopo, cosa ne facevano?» Alonso si fermò. «Sì, queste membra, queste viscere», insistette Olivia, «offerte agli dèi, va bene, ma praticamente, dove andavano a finire? Le bruciavano?» No, non venivano bruciati. «E allora? un dono agli dèi non poteva certo venir sotterrato, lasciato marcire…» «Los zopilotes»,  disse Alonso, «gli avvoltoi». Erano loro a sgomberare gli altari e a portare al cielo le offerte. Gli avvoltoi… «Sempre?» chiede ancora Olivia, con un’insistenza che non riesco a spiegarmi. Alonso scantona, cerca di cambiar discorso, ha fretta di mostrarci i camminamenti che collegavano le case dei sacerdoti ai templi, dove essi facevano la loro apparizione col volto ricoperto da maschere terrificanti. La foga pedagogica del cicerone aveva qualcosa d’irritante perché dava l’impressione che egli stesse impartendoci una lezione semplificata per farla entrare nelle nostre povere teste di profani, mentre lui ne sapeva certo di più, cose che teneva per sé e si guardava bene dal dirci. Forse era questo che Olivia aveva avvertito e che da un certo momento in poi la fece chiudersi in un silenzio contrariato, che durò per tutto il resto della visita agli scavi, e poi sulla jeep sobbalzante che ci riportava a Oaxaca. Cercavo, durante il percorso tutto curve, d’intercettare lo sguardo d’Olivia che sedeva di fronte a me; ma, fossero i sobbalzi della jeep o il dislivello dei nostri sedili, m’accorsi che il mio sguardo si fermava non sui suoi occhi ma sui suoi denti (teneva le labbra dischiuse in un’espressione assorta), denti che per la prima volta m’accadeva di vedere non come il lampo luminoso del sorriso ma come gli strumenti più adatti alla propria funzione: l’affondare nella carne, lo sbranare, il recidere. E come si cerca di leggere il pensiero d’una persona nell’espressione degli occhi, ecco ora io guardavo questi denti taglienti e forti e vi sentivo un desiderio trattenuto, un’attesa. 

Rientrando all’albergo e avviandoci verso la grande sala (l’ex cappella del convento) che dovevamo attraversare per raggiungere l’ala dov’era la nostra stanza, ci colpì un rumore come d’una cascata d’acqua che scroscia e rimbalza e gorgoglia attraverso mille rivoli e vortici e zampilli. Più ci avvicinavamo più questo omogeneo fragore s’andava frantumando in un insieme di cinguettii gorgheggi pigolii chioccolii come d’uno stormo d’uccelli che sbattesse le ali in una voliera. Dalla soglia (la sala era più bassa di alcuni gradini rispetto al corridoio) ci apparve una distesa di cappellini primaverili sulle teste di signore sedute intorno a tavole imbandite. Si stava svolgendo in tutto il paese la campagna per l’elezione del nuovo presidente della repubblica: la moglie del candidato ufficiale aveva offerto un tè d’imponenti proporzioni alle mogli dei notabili di Oaxaca. Sotto l’ampia volta vuota, trecento signore messicane conversavano tutte insieme: il grandioso evento acustico che ci aveva subito soggiogato era prodotto dalle loro voci mescolate al tintinnio di tazze e cucchiaini e coltelli che trinciavano fette di torta. Un gigantesco ritratto a colori di signora dal viso rotondo, i capelli neri e lisci tirati, un vestito azzurro di cui si vedeva solo il colletto abbottonato, non dissimile insomma dall’effige ufficiale del Presidente Mao Tse Tung, sovrastava l’assemblea. Per raggiungere il patio e di lì la nostra scala dovevamo farci largo tra i tavolini del ricevimento; già eravamo vicini all’uscita quando da uno dei deschi in fondo alla sala una delle poche figure maschili presenti s’alzò e ci venne incontro a braccia levate. Era il nostro amico Salustiano Velazco, personalità rappresentativa del nuovo staff presidenziale e in tale veste partecipante alle fasi più delicate della campagna elettorale. 

Non lo vedevamo da quando avevamo lasciato la capitale, e per manifestarci con tutta la sua esuberanza la gioia d’averci rincontrato e informarsi delle ultime tappe del nostro viaggio (e forse anche per sottrarsi un momento a quell’atmosfera in cui il predominio trionfale delle donne metteva in crisi la sua cavalleresca certezza nella supremazia maschile) lasciò il suo posto d’onore al convito per accompagnarci nel patio. Cominciò, più che a informarsi di quanto avevamo visto, a segnalarci quello che certamente avevamo mancato di vedere nei posti dove eravamo stati, e che avremmo potuto vedere solamente se ci fossimo stati con lui: uno schema di conversazione che gli appassionati conoscitori d’un paese si sentono obbligati ad applicare con gli amici in visita, sempre con le migliori intenzioni, ma che comunque riesce a guastare il piacere di chi è reduce da un viaggio e tutto fiero delle sue piccole o grandi esperienze. Il fragore conviviale dell’autorevole gineceo ci raggiungeva anche nel patio e copriva almeno metà delle parole dette da noi e da lui, cosicché non ero mai sicuro che egli non ci stesse rimproverando di non aver visto cose che gli avevamo appena detto d’aver visto. 

«E oggi siamo stati a Monte Albàn…» mi affrettai a comunicargli alzando la voce, «… le gradinate, i bassorilievi, gli altari dei 99 sacrifici…» Salustiano portò una mano alla bocca per poi sollevarla a mezz’aria, gesto che in lui testimoniava d’un’emozione troppo grande per essere espressa a parole. Cominciò a darci dettagli archeologici ed etnografici che mi sarebbe piaciuto molto poter seguire frase per frase, ma che si perdevano nel rimbombo dell’agape. Dai gesti e da parole sparse che riuscivo a cogliere, «sangre… obsidiana… divinidad solar…» capivo che stava parlando dei sacrifici umani, e lo faceva con un misto di partecipazione ammirata e di sacro orrore, atteggiamento che si distaccava da quello del rozzo cicerone della nostra gita per una maggiore consapevolezza delle implicazioni culturali che vi erano coinvolte. Fu allora che Olivia, che più pronta di me riusciva a seguire meglio la loquela di Salustiano, interloquì domandandogli qualcosa; compresi che gli ripeteva la stessa domanda che aveva fatto quel pomeriggio ad Alonso, «quello che gli avvoltoi non si portavano via… come finiva?» Gli occhi di Salustiano rivolsero a Olivia scintillii d’intesa e anch’io compresi allora l’intenzione che c’era dietro alla sua domanda, tanto più che Salustiano assunse il suo tono confidenziale, complice, ma sembrava che proprio perché più sommesse le sue parole superassero più facilmente la siepe di rumore che ci divideva. «Chissà… I sacerdoti… Anche questo faceva parte del rito… Per la verità se ne sa poco… Erano cerimonie segrete… Sì, il pasto rituale… Il sacerdote assumeva le funzioni del dio… quindi la vittima, cibo divino…» Era dunque a fargli ammettere questo che voleva arrivare, Olivia? Insisteva ancora: «Ma come avveniva, il pasto…?» «Ripeto, sono solo supposizioni… Pare che anche i principi, i guerrieri, partecipassero… La vittima era già parte del dio, trasmetteva la forza divina…» 

A questo punto Salustiano cambiava tono, diventava fiero, drammatico, s’esaltava: «Solo il guerriero che aveva catturato il prigioniero sacrificato non poteva toccare la sua carne… Stava in disparte, piangendo…» Olivia non sembrava ancora soddisfatta: «Ma questa carne, per mangiarla, la cucina, la cucina sacra, il modo di prepararla, i sapori, se ne sa qualcosa?» Salustiano s’era fatto pensieroso. Le banchettanti avevano raddoppiato i clamori e Salustiano adesso sembrava diventato ipersensibile al rumore: si batteva le orecchie col dito, faceva segno che con quel chiasso non poteva continuare. «Sì, dovevano esserci delle regole… Certo era un cibo che non poteva essere ingerito senza uno speciale cerimoniale… gli onori che merita… per rispetto dei sacrificati che erano giovani valorosi… per rispetto degli dèi… carne che non si può mangiare tanto per mangiare, come un’altra vivanda qualsiasi… E il sapore…» «Dicono che non sia buona da mangiare…?» «Un sapore strano, dicono…» «Ci saranno voluti dei condimenti… roba forte…» «Forse quel sapore doveva essere nascosto… Tutti i sapori dovevano essere chiamati a raccolta per coprire quel sapore…» E Olivia: «Ma i sacerdoti… sulla cucina… non hanno lasciato scritto… tramandato…?» Salustiano scuoteva il capo: «Mistero… la loro vita era circondata dal mistero…» E Olivia, Olivia sembrava fosse lei adesso a suggerire a lui: «Forse quel sapore veniva fuori comunque… anche in mezzo ad altri sapori…» Salustiano parlava con le dita posate sulle labbra come a filtrare quello che stava dicendo: «Era una cucina sacra… doveva celebrare l’armonia degli elementi raggiunta attraverso il sacrifìcio, un’armonia terribile, fiammeggiante, incandescente…» Ammutolì improvvisamente, quasi sentendo d’esser andato troppo in là e, come se il pensiero del banchetto l’avesse richiamato al dovere, s’affrettò a scusarsi di non poter restare di più con noi, perché doveva riprendere posto al suo tavolo. 

Aspettando che venisse giù la sera ci sedemmo a uno dei caffè sotto i portici dello zócalo,  la piazzetta quadrata che è il cuore d’ogni vecchia città della colonia, verde di bassi alberi ben potati chiamati almendros  ma che non somigliano affatto ai mandorli. Le bandierine di carta e gli striscioni che salutavano il candidato ufficiale facevano del loro meglio per comunicare allo zócalo un’aria di festa. Le buone famiglie di Oaxaca passeggiavano sotto i portici. Gli hippies americani aspettavano la vecchia che forniva il mezcal.  Venditori ambulanti cenciosi dispiegavano al suolo tessuti colorati. Da una piazza vicina giungeva l’eco dei megafoni d’uno sparuto comizio d’opposizione. Accoccolate per terra, grosse donne friggevano tortillas ed erbe. Nel chiosco in mezzo alla piazza suonava l’orchestra riportandomi ricordi rassicuranti delle sere in un’Europa provinciale e familiare che avevo fatto in tempo a vivere e a dimenticare. Ma il ricordo era come un «trompe l’oeil» e per poco che osservassi meglio mi dava un senso di distanza moltiplicata, nello spazio e nel tempo. Gli orchestrali, nerovestiti e incravattati, con le scure facce indie impassibili, suonavano per i turisti multicolori e sbracati, come abitanti d’una perpetua estate, comitive di vecchi e vecchie finti giovani in tutto lo splendore delle loro dentiere, e per gruppi di giovani ricurvi e meditabondi, come in attesa che la canizie venisse a imbiancare le loro barbe bionde e i capelli fluenti, infagottati in ruvidi panni, affardellati di bisacce come negli antichi calendari apparivano le figure allegoriche dell’inverno.  

«Forse i tempi sono giunti alla fine, il sole s’è stancato di sorgere, Cronos senza vittime da divorare muore d’estenuazione, le età e le stagioni sono sconvolte». «Forse la morte del tempo riguarda solo noi», rispose Olivia, «noi che ci sbraniamo facendo finta di non saperlo, facendo finta di non sentire più i sapori…» «Vuoi dire che i sapori… che qui hanno bisogno di sapori più forti perché sanno… perché qui mangiavano…» «Tal quale da noi anche ora… Solo che noi non lo sappiamo più, non osiamo guardare, come facevano loro… per loro non c’erano mistificazioni, l’orrore era lì, sotto i loro occhi, mangiavano fino a che restava un osso da spolpare, e per questo i sapori…» «Per nascondere quel sapore?» dissi, riprendendo la catena delle ipotesi di Salustiano. «Forse non si poteva, non si doveva nasconderlo… Altrimenti era come non mangiare quel che si mangiava… Forse gli altri sapori avevano la funzione d’esaltare quel sapore, di dargli uno sfondo degno, di fargli onore…» A tali parole sentii di nuovo il bisogno di guardarla nei denti, come già m’era avvenuto durante la discesa in jeep. Ma in quel momento dalle sue labbra s’affacciò la lingua umida di saliva, e subito si ritrasse, come se lei stesse assaporando qualcosa mentalmente. 

Compresi che Olivia stava già immaginando il menu della cena. S’apriva, questo menu, - quale ci fu offerto da un ristorante che trovammo tra basse case dalle inferriate flessuose - con una bevanda rosa in un bicchiere di vetro soffiato a mano: sopa de camarones ossia zuppa di gamberi, piccante oltremisura per una qualità di chiles  che finora non avevamo sperimentato, forse i famosi chiles jalapeños.  Poi cabrito,  capretto arrosto, di cui ogni boccone provocava sorpresa perché i denti ora incontravano un frammento croccante ora uno che si scioglieva in bocca. «Non mangi?» mi chiese Olivia che sembrava concentrata solo nel gustare il suo piatto ed era invece come al solito attentissima, mentre io ero rimasto assorto guardandola. Era la sensazione dei suoi denti nella mia carne che stavo immaginando, e sentivo la sua lingua sollevarmi contro la volta del palato, avvolgermi di saliva, poi spingermi sotto la punta dei canini. Ero seduto lì davanti a lei ma nello stesso tempo mi pareva che una parte di me, o tutto me stesso, fossi contenuto nella sua bocca, stritolato, dilaniato fibra a fibra. Situazione non completamente passiva in quanto mentre venivo masticato da lei sentivo anche che agivo su di lei, le trasmettevo sensazioni che si propagavano dalle papille della bocca per tutto il suo corpo, che ogni sua vibrazione ero io a provocarla: era un rapporto reciproco e completo che ci coinvolgeva e travolgeva. 

Mi ricomposi; ci ricomponemmo. Gustammo con attenzione l’insalata di tenere foglie di fico d’India bollite (ensalada de nopalitos) condita con aglio, coriandolo, peperoncino, olio e aceto; poi il roseo e cremoso dolce di maguey (varietà d’agave), il tutto accompagnato da una caraffa di tequila con sangrita  e seguito da caffè con cannella. Ma questo rapporto tra noi stabilito esclusivamente attraverso il cibo, tanto da non identificarsi in altra immagine che in quella di un pasto, questo rapporto che nelle mie fantasticherie facevo corrispondere ai più profondi desideri d’Olivia, in realtà non le garbava affatto, e il suo fastidio doveva trovar sfogo durante quella stessa cena. «Come sei noioso, monotono», cominciò a dire, riprendendo una sua polemica contro il mio temperamento poco comunicativo e la mia abitudine d’affidare interamente a lei il compito di tener viva la conversazione, polemica che si riaccendeva soprattutto quando ci trovavamo a quattr’occhi a un tavolo di ristorante, con requisitorie articolate in capi d’accusa dei quali non potevo non riconoscere i fondamenti di verità ma in cui pure individuavo le ragioni basilari della nostra coesione di coppia: cioè che Olivia vedeva e sapeva cogliere e isolare e definire rapidamente molte più cose di me e perciò il mio rapporto col mondo passava essenzialmente attraverso di lei. «Sei sempre sprofondato in te stesso, incapace di partecipare a ciò che ti circonda, a spenderti per il prossimo, senza mai un guizzo d’entusiasmo di tuo e pronto sempre a raffreddare quello degli altri, scoraggiante, indifferente», e nell’inventario dei miei difetti stavolta aggiunse un aggettivo nuovo, o tale da caricarsi ai miei orecchi d’un nuovo significato: «insipido!» Ecco, ero insipido, pensai, e la cucina messicana con tutta la sua audacia e fantasia era necessaria perché Olivia potesse cibarsi di me con soddisfazione; i sapori più accesi erano il complemento, anzi il mezzo di comunicazione indispensabile come un altoparlante che amplifica i suoni perché Olivia potesse nutrirsi della mia sostanza. 

«Può darsi che io ti sembri insipido», protestai, «ma ci sono gamme di sapori più discrete e contenute di quella dei peperoncini, ci sono aromi sottili che bisogna saper cogliere!» «La cucina è l’arte di dar rilievo ai sapori con altri sapori», replicò Olivia, «ma se la materia prima è scipita, nessun condimento può rialzare un sapore che non c’è!» L’indomani Salustiano Velazco volle accompagnarci lui a visitare certi scavi recenti, non ancora battuti dai turisti. Una statua di pietra s’elevava appena dal livello del suolo, con la sagoma caratteristica che avevamo imparato a riconoscere fin dai primi giorni delle nostre peregrinazioni archeologiche messicane: il chac-mool,  figura umana semisdraiata, in posa quasi etrusca, che regge un vassoio posato sul ventre; sembra un bonario, rozzo pupazzo, ma è su quel vassoio che venivano offerti al dio i cuori delle vittime. «Messaggero degli dèi: cosa vuol dire?» chiesi io che avevo letto quella definizione su una guida. «È un dèmone mandato sulla terra dagli dèi a prendere il piatto delle offerte? O è un emissario degli uomini che deve andare incontro agli dèi e porgere loro il cibo?» «Chissà…» rispose Salustiano con l’aria sospesa che assumeva di fronte ai quesiti irresolubili, come ascoltando le voci interiori di cui disponeva quali manuali di consultazione della sua scienza. «Potrebbe essere la vittima stessa, supina sull’altare, che offre le proprie viscere sul piatto… O il sacrificatore che assume la posa della vittima perché sa che domani toccherà a lui… Senza questa reversibilità il sacrificio umano sarebbe impensabile… tutti erano potenzialmente sacrificatori e vittime… la vittima accettava d’essere vittima perché aveva lottato per catturare gli altri come vittime…» «Potevano essere mangiati perché erano loro stessi mangiatori d’uomini?» aggiungo io, ma Salustiano sta ormai parlando del serpente come simbolo di continuità della vita e del cosmo. Io avevo capito, intanto. 

Il mio torto con Olivia era di considerarmi mangiato da lei, mentre dovevo essere, anzi ero (ero sempre stato) colui che la mangiava. La carne umana di sapore più attraente è quella di chi mangia carne umana. Solo nutrendomi voracemente d’Olivia non sarei più riuscito insipido al suo palato. Con questo proposito mi sedetti con lei a cena, quella sera. «Ma che hai? Sei strano stasera», disse Olivia a cui non sfuggiva mai nulla. Il piatto che ci avevano servito si chiamava gorditas pellizcadas con manteca,  letteralmente «paffutelle pizzicate al burro». Io m’immedesimavo a divorare in ogni polpetta tutta la fragranza d’Olivia attraverso una masticazione voluttuosa, una vampiresca estrazione di succhi vitali, ma m’accorgevo che in quello che doveva essere un rapporto tra tre termini, io-polpetta-Olivia, s’inseriva un quarto termine che assumeva un ruolo dominante: il nome delle polpette. Era il nome «gorditas pellizcadas con manteca» che io gustavo soprattutto e assimilavo e possedevo. Tanto che la magia del nome continuò ad agire su di me anche dopo il pasto, quando ci ritirammo insieme nella nostra camera d’albergo, nella notte. 

E per la prima volta durante il nostro viaggio in Messico l’incantesimo di cui eravamo rimasti vittime fu rotto e l’ispirazione che aveva favorito i momenti migliori della nostra convivenza tornò a visitarci. Ci ritrovammo il mattino seduti nel nostro letto in posa da chac-mool con sul viso l’espressione atona delle statue di pietra e sulle ginocchia il vassoio dell’anonima colazione alberghiera cui cercavamo d’aggiungere sapori locali chiedendo che fosse accompagnata con mangos, papayas, chirimoyas, guayabas,  frutti che celano nella dolcezza della polpa sottili messaggi d’asperità e agritudine. Il nostro viaggio si spostò nei territori dei Maya. I templi di Palenque emergono dalla selva tropicale, sovrastati da fitte montagne vegetali: enormi fìcus dai tronchi multipli come radici, maculìs dalle fronde color lillà, aguacates,  ogni albero avvolto in un mantello di liane e rampicanti e piante pendule. Fu scendendo per l’erta scalinata del Tempio delle Iscrizioni che mi prese una vertigine. Olivia, che non amava le scale, non aveva voluto seguirmi ed era rimasta confusa nella folla di comitive chiassose di suoni e colori che i torpedoni scaricavano e ingurgitavano di continuo nello spiazzo tra i templi. Da solo m’ero inerpicato al Tempio del Sole, fino al bassorilievo del Sole-giaguaro, al Tempio della Croce Fogliata, fino al bassorilievo del quetzàl (colibrì) di profilo, poi al Tempio delle Iscrizioni, che non comporta solo una scalata (e relativa discesa) della gradinata monumentale, ma anche la discesa nel buio (e relativa risalita) della scaletta che porta alla cripta sotterranea. 

Nella cripta c’è la tomba del re-sacerdote (che avevo già potuto osservare molto più comodamente pochi giorni prima in un perfetto facsimile al Museo d’Antropologia di Città del Messico) con la lastra di pietra scolpita complicatissima in cui si vede il re manovrare un macchinario da fantascienza che ai nostri occhi sembra di quelli che servono a lanciare i razzi spaziali e invece rappresenta la discesa del corpo agli dèi sotterranei e la rinascita nella vegetazione. Discesi, risalii alla luce del sole-giaguaro, nel mare di linfa verde delle foglie. Il mondo vorticò, precipitavo sgozzato dal coltello del re-sacerdote giù dagli alti gradini sulla selva di turisti con le cineprese e gli usurpati sombreros a larghe tese, l’energia solare scorreva per reti fittissime di sangue e clorofilla, io vivevo e morivo in tutte le fibre di ciò che viene masticato e digerito e in tutte le fibre che s’appropriano del sole mangiando e digerendo. Sotto la pergola di paglia d’un ristorante in riva a un fiume, dove Olivia m’aveva atteso, i nostri denti presero a muoversi lentamente con pari ritmo e i nostri sguardi si fissarono l’uno nell’altro con un’intensità di serpenti. Serpenti immedesimati nello spasimo d’inghiottirci a vicenda, coscienti d’essere a nostra volta inghiottiti dal serpente che tutti ci digerisce e assimila incessantemente nel processo d’ingestione e digestione del cannibalismo universale che impronta di sé ogni rapporto amoroso e annulla i confini tra i nostri corpi e la sopade frijoles, lo huacinango a la veracruzana,  le enchiladas

(Italo Calvino, Sotto il sole giaguaro, 1986)